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Qual è la differenza tra «Menzione Geografica Aggiuntiva» e «cru»?
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Lo abbiamo chiesto a Giovanni Minetti, Ceo di Tenuta Carretta ed ex Presidente del Consorzio di Tutela Barolo e Barbaresco, che in questa intervista spiega con chiarezza origine, sviluppo e caratteristiche della Menzione Geografica Aggiuntiva di Barolo e Barbaresco.
Una recente affermazione di Riccardo Cotarella ha dato l’abbrivio a una nuova discussione sulla differenza tra cru francesi e sistemi di classificazione italiani. Il celebre enologo sostiene che a Bordeaux «rialzi di pochi metri realizzati con le ruspe» sono chiamati “cru” e hanno consentito di triplicare il prezzo dei vini». In Italia, invece, dove le diversità naturali sono incredibili non sappiamo «evidenziare le nostre qualità». È così?
Non credo che Cotarella si sia espresso in questi termini: diciamo piuttosto che nei confronti della Francia noi continuiamo a pagare una distanza che, se si è quasi annullata a livello tecnico sia in vigna che in cantina, è ancora tanta a livello di cultura. Manchiamo di consapevolezza dei nostri punti forti e quindi non lavoriamo sui nostri punti deboli. Sto parlando degli aspetti che interessano l’insieme dei produttori, dove non è che siamo fermi, ma solo che siamo lenti. Pensiamo ancora che sia possibile risolvere i problemi agendo a livello individuale. Ma il mondo va di fretta… e parlo della realtà piemontese, che da questo punto di vista è a sua volta almeno 10 anni avanti rispetto alla maggior parte delle regioni italiane.
Lei, allora, era presidente del Consorzio di Tutela Barolo e Barbaresco. Perché fu creato il sistema delle Menzioni Geografiche Aggiuntive (MeGA)?
Negli anni ’90 il mondo riscopre il Barolo, che è cambiato molto rispetto alla ruvidezza del passato. Da vino duro, ruvido e astringente, con acidità elevata, colore scarico e aromi “pesanti”, diventa un vino senza ossidazioni o riduzioni, aromi fruttati, caratteristiche dell’uva nebbiolo ben espresse, tannini maturi e dolci, armonici ed equilibrati. Il risultato è prodigioso, le scorte di Barolo vano esaurite, il prezzo aumenta così come la superficie dei vigneti che dal 1992 al 2015 raddoppia con nuovi e nuovissimi produttori. Insieme ai nuovi produttori fioriscono anche nuove etichette: ognuno sente la necessità di distinguersi dagli altri e lo fa personalizzando la denominazione principale (Barolo appunto, e Barbaresco) con nomi di vigneti, di borgate, di persone, con toponimi ed espressioni dialettali: tutto va a finire sull’etichetta, determinando in breve tempo una situazione completamente fuori controllo. La prima urgenza era quindi quella di mettere ordine delimitando e denominando in via definitiva, comune per comune, le diverse aree viticole, sia quelle tramandate da una lunga tradizione, sia quelle, per così dire, più nuove. Un lavoro imponente, promosso dall’unico ente in grado di poterlo sostenere a livello “politico” e amministrativo, cioè il Consorzio di Tutela. Una scelta obbligata ma non scontata, della quale, in qualità di Presidente, mi assumo personalmente la responsabilità politica insieme al Consiglio di amministrazione di allora. Un lavoro che è stato possibile portare a termine esclusivamente grazie all’impegno e alla collaborazione di molti, dai Sindaci e dalle Amministrazioni dei comuni interessati, nonché dal Comitato Nazionale, allora presieduto dal sen. Zanoletti e con gli albesi Gianluigi Biestro e Terenzio Ravotto quali componenti di diverse commissioni nell’ambito del Comitato stesso. Soprattutto, grazie all’impegno sul campo dell’allora staff tecnico del Consorzio: il direttore Claudio Salaris e Fabrizio Mascarello.
Un grande impegno collettivo, dunque?
Fu, per una volta, un vero grande gioco di squadra, che iniziò con il Barbaresco, grazie all’area di origine di più ridotte dimensioni (sono solo 4 i comuni interessati dalla denominazione). Furono definite 66 «Menzioni geografiche aggiuntive», ufficialmente inserite nel Disciplinare di produzione nel 2007. Per il Barolo la situazione era più complessa, interessi commerciali più consolidati e un’area più grande: c’era bisogno di più tempo. Alla fine, sono state definite 181 aree (170 più il nome degli 11 comuni che rappresentano la zona di origine del vino), inserite nel nuovo disciplinare di produzione approvato nel dicembre 2010. Il nostro intento non è mai stato però quello di classificare, bensì di censire e delimitare amministrativamente “in forma certa”, così come richiesto dalla legge, aree più ristrette rispetto alle denominazioni principali.
Perché sono state chiamate «Menzioni Geografiche aggiuntive»?
La dicitura “menzione geografica aggiuntiva” è stata una scelta obbligata, dettata dalla
necessità di adeguarsi all’unico strumento legislativo utilizzabile, un Decreto ministeriale pubblicato a pochi mesi di distanza dalla legge 164 del 1992 e rimasto poi chiuso in un cassetto per un decennio e quindi mai applicato prima. La 164 era la norma di riferimento, una legge che porta il nome del ministro astigiano Giovanni Goria, anche se a redigerla fu il professor Mario Fregoni, luminare di viticoltura ed enologia, che scrisse anche il Decreto applicativo sulle «Menzioni Geografiche Aggiuntive». Il Barbaresco prima e il Barolo poi sono state le prime denominazioni in Italia ad utilizzare questo strumento e, dal 2017, anche il Roero. Per ora nessun altro vino italiano ha seguito il nostro esempio, a conferma della capacità del Piemonte e marcatamente dei produttori di Langhe e Roero, di anticipare i tempi.
Matteo Ascheri, attuale presidente del Consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, ha detto che le MeGA «sono impropriamente dette cru». Che differenza c’è tra Menzione Geografica Aggiuntiva e cru francese?
La “menzione” è una indicazione geografica che si «aggiunge» alla denominazione principale, indicandone quindi un’area più ristretta. Nei confronti della “vigna”, che ha una dimensione esclusivamente aziendale, la menzione ha invece – di norma – una valenza collettiva, interessando più produttori. Il concetto francese di «cru», che deriva dal verbo «croitre» (crescere), porta allo stesso modo all’identificazione di un luogo specifico di produzione dove alcuni fattori, anche non naturali, conferiscono al vino caratteristiche uniche e specifiche, diverse da quelle presenti in altri vini prodotti in luoghi anche vicini. Oltre al «cru» in Francia si utilizza un altro termine (“climat”, a dire il vero poco conosciuto in Italia) per identificare un’area più ampia e composta da cru diversi. Un concetto molto simile a quello delle nostre MeGA. Una MeGA non è l’equivalente di un «cru», perché il «cru» sembrerebbe avere più le caratteristiche della vigna che quelle della MeGA. In ogni caso si tratta di definizioni specifiche che derivano da esperienze culturali, tecniche, amministrative e di mercato molto diverse (e in Italia di recentissima applicazione, come detto) e pertanto non esattamente sovrapponibili.