Riflessioni sulla richiesta del riconoscimento per il Piemonte DOC Nebbiolo
Lettura in
L’opinione di Giovanni Minetti, AD di Tenuta Carretta, già presidente del Consorzio del Barolo, del Barbaresco e dei vini d’Alba.
Ritengo che la proposta di abbinare alla denominazione Piemonte il vitigno Nebbiolo, seppure legittima da parte dei promotori, sia inopportuna, ma anche un po’ incoerente, nel metodo e nel merito. Mi spiego: è noto a tutti che il Nebbiolo – nel mondo intero – è una delle varietà più difficili ed esigenti da coltivare, e che esprime qualità solo là dove si crea la giusta intesa (feeling) con il suolo e le condizioni climatiche. Non c’è area viticola al mondo dove qualcuno non abbia provato a coltivarlo, dalla California all’Australia, dal Sud Africa alla Francia, con risultati in genere deludenti e scoraggianti, tali da indurre i più ad abbandonarne presto la coltivazione. Questo “brevetto naturale” di cui godono soprattutto alcune esclusive aree piemontesi (Langhe e Roero ma anche Valsesia e alto Canavese) insieme con la Valtellina (Lombardia) ha reso ancora più affascinante questa varietà, le sue aree di coltivazione e i vini cui dà origine, i quali conseguentemente sono prodotti in quantità limitate e anche per questo sono più preziosi: vini complessi, austeri, che bisogna saper aspettare (prima in bottiglia, ma poi anche nel bicchiere, una volta versati) e che ogni volta hanno la capacità di sorprendere l’appassionato.
Tutte queste caratteristiche hanno dato al nebbiolo una notorietà internazionale di eccellenza, per cui è comprensibile che ora ci sia qualcuno che ha la tentazione di approfittare di questa situazione, con il rischio di spacciare per pietra preziosa quella che forse è solo bigiotteria. Io sono (e credo di averlo chiaramente dimostrato nel corso della mia attività) un grande sostenitore della denominazione Piemonte, ma per i vini dove esiste una base produttiva ampia e per vitigni diffusi in una vasta area di coltivazione. Certamente non possiamo riscontrare queste premesse nel caso del nebbiolo, sinonimo di esclusività: di vino con l’uva nebbiolo se ne produce comunque poco, le aree di coltivazione sono di dimensioni ridotte e la produzione è estremamente limitata, quindi non si capisce da dove potrebbe avere origine la materia prima per la produzione di questo nuovo vino.
I promotori sostengono che noi siamo solo dei produttori egoisti e chiusi ad ogni novità, e che di vigneti di nebbiolo al di fuori delle aree classiche ce ne sono già presenti almeno 600 ettari. Un dato sicuramente vero, in quanto l’impiego del nebbiolo (non in purezza ma insieme ad altre uve) è già consentito in quasi la metà dei disciplinari di produzione dei vini DOC/DOCG piemontesi. Oltre al Piemonte rosso al Piemonte rosato, il nebbiolo è infatti protagonista nei disciplinari di produzione dell’Albugnano (nebbiolo almeno per l’85%, 9 gli ettari rivendicati nel 2014), del Bramaterra (nebbiolo dal 50 al 70%, 25 ettari rivendicati), del Canavese e del Canavese nebbiolo (in diverse proporzioni con altri vitigni, 104 gli ettari complessivi della denominazione), del Colline Novaresi nebbiolo (con il vitigno presente per almeno l’85%), rosso e rosato (174 ettari complessivi per un consistente numero di varietà), del Coste della Sesia nebbiolo, rosso e rosato (29 ettari), del Pinerolese (24 ettari), del Terre Alfieri nebbiolo (25 ettari complessivi) e infine del Valli ossolane nebbiolo e del Valli ossolane nebbiolo superiore (7 ettari complessivi). E poi di Boca (10 ettari), Fara (4 ettari), Sizzano (3 ettari), Lessona (17 ettari), oltre ai più noti Carema (14 ettari), Ghemme (37 ettari) e Gattinara (86 ettari). Dimenticavo l’Alba DOC (1,53 ettari). Da questa panoramica si può comprendere meglio il senso della richiesta, ma non è chiaro quale sarà il destino di queste micro-denominazioni conosciute per lo più esclusivamente a livello locale, con l’eccezione di alcune di lunghissima storia e prestigio. Verranno cancellate? Io credo proprio di no.
I promotori hanno in mente di realizzare nuovi impianti di nebbiolo in queste o in altre aree viticole della regione? Sarebbe un’azione da sconsigliare, come la storia della vite e del vino della nostra regione ha dimostrato nei secoli. Prima a chi quegli impianti li fa, poi perché significherebbe quasi certamente (visti i parametri produttivi inseriti nel disciplinare: 10 ton di uva per ettaro e 11%vol di alcool) mettere sul mercato prodotti di qualità inadeguata, che finirebbero per aumentare la confusione e quindi generare un calo di immagine dagli effetti molto negativi.
Un suggerimento sul metodo: perché non si comincia, prima di chiedere un nuovo riconoscimento importante come quello di una denominazione di origine, a sperimentare, a piantare qualche vigneto in areali diversi da quelli tradizionali, a produrre, ad analizzare i risultati e poi chiedere la DOC, solo dopo una chiara dimostrazione di un adeguato livello qualitativo ottenuto?
Ad oggi, per quanto mi risulta, niente di tutto questo ancora è stato fatto. E allora perché mai si dovrebbe essere d’accordo a rilasciare una certificazione di qualità per un prodotto che di fatto ancora non esiste, quindi che è solo virtuale e non reale?
Giovanni Minetti
AD di Tenuta Carretta