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Al vino non serve il sensazionalismo: un’intervista sul «valore» del vino
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Antonio Galloni, uno dei più influenti wine critic al mondo, è recentemente stato a Barolo dove, in occasione dell’evento «Un’annata alla vostra attenzione», gli è stata dedicata ufficialmente la nuova annata 2014. La presenza di Galloni ha stimolato un interessante dibattito attorno al «valore» del vino, che riprendiamo attraverso un’intervista a Giovanni Minetti, CEO di Tenuta Carretta, presente all’evento.
Galloni si è appassionato al Barolo grazie ad una frequentazione diretta dei produttori delle Langhe. Ha espresso però il timore che oggi le aziende agricole siano gestite da manager lontani dal vigneto.
È vero. Galloni ha ribadito l’importanza del fattore umano presente nel vino, e nel Barolo in particolare. Ha espressamente detto che l’esperienza di chi lo produce è la leva su cui si determina il prezzo della bottiglia. Al contrario di altri prodotti, la componente umana è una variabile fondamentale per il vino, l’unica capace di fare esprimere al meglio la qualità naturalmente presente nelle grandi vigne. Il vino è una vera e propria espressione artistica.
Si è parlato molto di «qualità» del vino: le condotte etico-filosofiche di un’azienda possono influire su questo aspetto?
Galloni su questo punto è stato chiaro: quando lui valuta un vino non è influenzato dal modo in cui è stato prodotto, ma solo all’aspetto qualitativo in sé e per sé. Un vino è buono o no, è rappresentativo della denominazione oppure no: il modo con cui viene prodotto, se attraverso un processo tradizionale o innovativo (bio, biodinamico o “naturale”), è una variabile che non influenza la sua valutazione.
Oggi si assiste a una importante crescita dei vini bio e biodinamici: è un trend che può aumentare il valore di un’etichetta?
Il metodo di produzione, al di là del credo di ciascuno, che va sempre rispettato, è una scelta di stile, di espressione, che diventa un elemento di comunicazione, un modo da parte di alcuni produttori per “smarcarsi” nei confronti di altri. Dagli anni ’80 in poi, cioè da quella che possiamo definire la «nuova era del Barolo», si è da subito creata una distinzione tra i cosiddetti «modernisti» (piccole e giovani cantine che producevano Barolo più pronti, per lo più affinati in barrique) e “tradizionalisti” (grandi nomi e cantine che facevano Barolo alla vecchia maniera, botti grandi e lunghe macerazioni). Al tempo, la qualità, la pulizia e la freschezza del prodotto dei «modernisti», giustificò anche il differenziale di prezzo delle bottiglie. Ma presto i «tradizionalisti» cominciarono anche loro a produrre in modo analogo, così i «modernisti», pian piano, si spostarono sulla valorizzazione dei cru, imitati a loro volta dai «tradizionalisti». Oggi siamo arrivati al bio, al biodinamico, al “naturale”, praticato e promosso dai piccoli produttori, ma anche i grandi ci stanno arrivando. Ecco: la necessità di trovare nuovi elementi distintivi altro non è che un modo di cercare di comunicare al consumatore una specificità, una differenza per poter dare un nuovo e diverso valore al proprio prodotto. Solo si sbaglia quando si parla di “bio” e di “sostenibilità” come se fossero la stessa cosa e si afferma che questo sia l’elemento decisivo di questa distinzione.
Perché, bio e sostenibilità non sono la stessa cosa?
Sono due aspetti diversi. Chi fa prodotti bio (o biodinamici o “naturali”) non adotta necessariamente la sostenibilità come filosofia aziendale. Produrre bio è adottare una tecnica specifica, seguire un protocollo. La sostenibilità invece è un approccio globale e virtuoso alla produzione, a cui sono culturalmente predisposte le aziende governate in modo manageriale piuttosto che le piccole aziende, spesso meno organizzate. Si tratta di due percorsi distinti, dove il bio può integrarsi o meno in un percorso di produzione sostenibile.
Che cosa può davvero dare «valore» al vino?
Quello della valorizzazione delle diverse produzioni è il grande tema che deve vedere coinvolti tutti i produttori, indipendentemente dalle scelte filosofiche, dagli stili e dalle dimensioni produttive. Perché “valorizzare” significa vendere meglio, quindi è necessario far capire che cosa c’è dentro il prezzo di un vino e che la tradizione e l’esperienza così come l’innovazione e la ricerca rappresentano un costo per il produttore che si aggiunge al costo di trasformazione e che va remunerato. Dopo un grande sforzo qualitativo e di comunicazione dell’intero settore per reagire allo scandalo del vino al metanolo del 1986 ho notato nel tempo una progressiva inversione di tendenza. Dal 2006 si è cominciato ad attaccare con una certa sistematicità i vini più costosi per demolirne il valore agli occhi del consumatore, semplicemente affermando che i prezzi delle bottiglie erano troppo elevati, quindi “moralmente” discutibili. Nel volgere di pochi anni, il mondo del vino si è così scoperto nudo, più povero e impreparato, senza radici, con poca cultura, fragile e incapace di reagire agli attacchi, sia quelli diretti, di un giornalismo d’assalto e scandalistico, sia quelli più subdoli, ma ancora più pericolosi, come la paura dell’etilometro, le diete ipocaloriche o le campagne contro la dipendenza da alcool. Credo che grandi e piccoli produttori insieme, accanto alla ricerca di nuovi “elementi distintivi” dovrebbero lavorare per porre rimedio ai danni della cattiva informazione e dello scandalismo che, complice la grande crisi dal 2008 in poi, ancora oggi non siamo riusciti a riparare del tutto. C’è tanto lavoro da fare, ma credo davvero occorra ripartire dalla base, a spiegare la «cultura del vino» nelle sue componenti umane e territoriali. Invece troppo spesso dimentichiamo di dire che il vino in natura non esiste, ma è frutto di un processo di trasformazione guidato dall’uomo, chiamato ogni anno a interpretare con la sua creatività e sensibilità, con le necessarie nozioni tecniche e con la propria passione le caratteristiche di una materia prima mutevole, figlia di una natura che sa sempre sorprendere.